“È sempre possibile aggrapparsi ad alcuni punti fermi, per proseguire la propria attività senza incorrere in antipatici incidenti, come il florovivaismo, nonostante la Cassazione e l’accanimento mediatico”Si preannuncia un’estate bollente per molti dei professionisti che hanno scelto di investire nel settore della Cannabis light. Tra la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, minacciose circolari ministeriali, comizi infuocati e post social al veleno, non saranno soltanto le torride temperature di questi giorni a preoccupare agricoltori e commercianti. Ciononostante, all’interno di un tale marasma politico, normativo e giurisprudenziale, è sempre possibile aggrapparsi ad alcuni punti fermi, per proseguire la propria attività senza incorrere in antipatici incidenti. Ma andiamo con ordine.
LE RAGIONI DI PREOCCUPAZIONE
La circolare di maggio del Ministero dell’Interno
In ordine di tempo, la prima seria minaccia nei confronti dei rivenditori di canapa sativa L proviene dalla circolare emessa lo scorso maggio dal Ministero dell'Interno. Il dicastero guidato da Matteo Salvini si è scagliato con forza contro il settore, esprimendo la propria contrarietà alla circolazione e al commercio della Cannabis light e dei suoi derivati. In particolare, l'attenzione del Ministero si è concentrata sulle infiorescenze, di cui è stata radicalmente esclusa la riconducibilità alla disciplina di favore disposta dalla l. 242/2016. Ma non finisce qui; oltre a conferire mandato alle Forze dell'ordine per intensificare i controlli in relazione ai permessi in capo agli esercenti, il Ministero ha invitato le Regioni e gli Enti locali a varare regolamenti che impediscano agi esercizi commerciali di sorgere nelle vicinanze di luoghi considerati “sensibili”.
Quanto ai controlli, questi si concentreranno sul possesso di autorizzazioni amministrative e certificazioni su igiene, agibilità, impiantistica, urbanistica e sicurezza. In merito ai luoghi sensibili, invece, la circolare suggerisce una distanza minima da 500 metri da scuole e altri luoghi frequentati da minori. Quest’ultimo invito ricorda quanto avvenuto in passato, ad opera del c.d. “decreto Balduzzi”, con riguardo alle sale slot. Sulla base del decreto, Regioni e comuni hanno adottato regolamenti che ne hanno impedito la collocazione nelle vicinanze di tutta una serie di punti nevralgici, la cui definizione, però, non è stata approntata con la sufficiente certezza. Ciò ha dato vita a un forte contenzioso, affollando le aule dei Tribunali. Da molte di queste vertenze è scaturita una giurisprudenza altalenante e contraddittoria, che non ha contribuito alla puntuale regolamentazione del settore, aumentando l’incertezza degli investitori.
La Sentenza delle Sezioni Unite
Alla circolare appena citata, è seguita a stretto giro la famosa sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite del 30 maggio scorso. I giudici di legittimità sono stati chiamati a decidere una volta per tutte sul contrasto giurisprudenziale creatosi a seguito dei numerosi sequestri intervenuti dopo l’approvazione della legge 242/2016. Nonostante precedenti arresti giurisprudenziali avessero aperto più di uno spiraglio nei confronti della libera vendita di infiorescenze e derivati della cannabis “light”, le Sezioni Unite sono intervenute scuotendo il mercato e affermando, con una decisione che ha la pretesa di essere definitiva, la non riconducibilità della disciplina di maggior favore disposta dalla l. 242 a commercianti e rivenditori.
Inoltre, capovolgendo quanto affermato soltanto poco tempo prima dalla stessa Cassazione, i giudici, con un ragionamento invero discutibile, hanno escluso la riconducibilità della vendita di infiorescenze nell’alveo del concetto di florovivaismo, attività espressamente indicata come una delle finalità della produzione di Cannabis Sativa L.
Il principio di diritto espresso dagli ermellini è il seguente: “la commercializzazione al pubblico di Cannabis Sativa L. e, in particolare, di foglie, infiorescenze, olio, resina, ottenuti dalla predetta varietà di Canapa, non rientra nell’ambito di applicabilità della legge n. 242 del 2016, (…) sicché la cessione, la vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico dei derivati della coltivazione di cannabis sativa L. quali foglie, infiorescenze, olio, resina, sono condotte che integrano il reato di cui all’art. 73 d.p.r. n. 309/90, anche a fronte di un contenuto di THC inferiore ai valori indicati dall’art. 4, commi 5 e 7, legge n. 242/2016, salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività”.
Uno stretto giro di vite, dunque, per i commercianti ma, contestualmente, un’apertura alla non perseguibilità penale di chi metta in commercio prodotti con un bassissimo indice di THC.
Va precisato, però, che la Cassazione sembra sposare una concezione restrittiva dell’effetto drogante, non ancorandolo alla percentuale di principio attivo, ma bensì all’idoneità a produrre effetti psicotropi o droganti, fattore che può realizzarsi anche laddove non si raggiunga il valore soglia della dose media singola di 0.25 mg di THC.
La dialettica del governo e l’incertezza mediatica
Oltre alle prese di posizione diciamo, “istituzionali”, appena elencate, vi è da registrarsi un accanimento da parte dei rappresentati del governo nella loro dialettica quotidiana. La Cannabis light, sebbene priva per definizione di potenziale drogante, viene continuamente additata sui social e sui media tradizionali quale stupefacente in grado di mettere in pericolo la salute pubblica. A ciò si aggiunge la poca preparazione di molti degli esponenti del governo attivi nel fronte opposto al libero commercio della Cannabis Sativa L. Essa viene infatti spesso definita del tutto impropriamente Cannabis “terapeutica”, generando estrema confusione nel pubblico. In pochi hanno ben chiara la differenza fra le categorie della terapeutica e della “light”, ma nonostante ciò scelgono di scagliarsi con prepotenza contro il gran numero di imprenditori che hanno deciso di investire, forti della l. 242/2016, ingenti capitali in un settore mal normato.
I PUNTI FERMI
Nonostante l’estrema incertezza che avvolge il settore, è comunque possibile individuare alcuni punti fermi:
Il florovivaismo
Seppur sia stato escluso dalla Sezioni Unite della Corte di Cassazione, appare comunque ben possibile ricondurre la vendita di infiorescenze di cannabis light all’interno del concetto di florovivaismo. Secondo la definizione che ne dà il vocabolario Treccani, infatti, il florovivaismo consiste nell’”attività professionale di produzione e commercializzazione di fiori recisi – e dunque, parafrasando, ‘infiorescenze’ – e di piante in un complesso di serre e vivai”.
Rientrando tra le finalità espresse della legge, l’attività florovivaistica non può essere bloccata sulla base del semplice sospetto che la Cannabis light possa arrecare danni alla salute.
E’ vero, infatti, che la salute è un diritto di rango costituzionale, ma allo stesso modo lo è la libertà di iniziativa economica. Qualora la legge preveda la possibilità di intraprendere una specifica attività imprenditoriale, non è possibile, secondo la nostra Costituzione, bloccarne l’esercizio se non sulla base di comprovate gravi ragioni, come, ad esempio, manifesti rischi alla salute del consumatore.
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Ebbene, nel caso della Cannabis Sativa L non vi sono studi che dimostrino empiricamente l’esistenza di controindicazioni nel consumo del principio attivo conosciuto come CBD del quale, peraltro, sono libere la vendita e il consumo.
Per dormire sonni tranquilli, sarà necessario, però, sia per i produttori che per i rivenditori, dotarsi di apposite autorizzazioni all’attività florovivaistica anche al fine di assicurare la platea degli acquirenti che il prodotto sia conforme dal punto di vista fitosanitario e che la percentuale di principio attivo sia contenuta nello 0,2%; tutto ciò al fine di poter richiedere l’applicazione della normativa europea di settore e ricomprendere i prodotti florovivaistici all’interno di quelli commercializzabili.
Sul punto vi è una pronuncia della Cassazione, ad oggi rimasta poco conosciuta, ovvero la sentenza 10809/19 della III sezione del 7.12.18, la quale propone un’interpretazione originale e diversa dai due distinti orientamenti che hanno portato la Cassazione a richiedere l’intervento delle Sezioni Unite. In tale decisione viene affermato il principio della libera commerciabilità della coltivazione della Cannabis Sativa L finalizzata alla realizzazione dei prodotti tassativamente elencati dall’art. 2 II c., sempre che il principio attivo non sia superiore allo 0,2 % THC.
La produzione di alimenti
L’articolo 1, comma 3, lettera d) della l. 242/2016 prevede la produzione di alimenti quale finalità espressa della coltivazione di Canapa. Come già individuato dalla Corte di Cassazione in alcune pronunce, l’espressa possibilità di produrre e mettere in commercio prodotti alimentari suggerisce, in via analogica, un’apertura al commercio di infiorescenze e prodotti derivati privi, beninteso, di potenziale stupefacente. Sostenere il contrario, infatti, significherebbe ragionare in maniera contraria alla legge stessa. Per quanto concerne, dunque, olii, estratti e integratori alimentari contenenti CBD, è possibile farsi forti dell’espresso rimando effettuato dalla stessa legge 242.
L’assenza di efficacia drogante
Da ultimo, alla luce della recente pronuncia della Sezioni Unite, il maggior punto fermo al quale aggrapparsi è costituito dal potenziale drogante dei prodotti commerciati. Come già riportato, la Cassazione ha aperto all’esclusione della punibilità di chi metta in circolazione infiorescenze, olii o estratti che non contengano carica psicoattiva, o ne presentino in quantità trascurabili.
In questa direzione, soccorre una recente pronuncia del Tribunale del Riesame di Genova secondo cui infiorescenze e prodotti derivati della Cannabis light non possono essere oggetto di sequestri se non viene dimostrato che il livello di THC superi lo 0,5%”.
L’importanza di quest’ultima pronuncia, oltre che per il contenuto prescrittivo, è da rinvenirsi nel dato temporale, poiché è intervenuta successivamente alla contestata sentenza delle Sezioni Unite.
Va comunque sottolineato che la verifica dell’effetto drogante è attività che richiede un sequestro.
Anche su questo non vi è una interpretazione concorde, stante che c’è chi vi ritiene che il sequestro vada operato su tutti i prodotti e che gli stessi vadano tutti analizzati, chi sostiene che vada tutto sequestrato, ma le analisi effettuate solo su dei campioni e chi, come da ultimo il Tribunale di Genova ritiene che, come per il coltivatore, i sequestri e le analisi vengano effettuate solo su campioni del prodotto.
Talvolta tali operazioni di analisi tecniche perdurano a lungo, con conseguenze gravi per i produttori che non riescono spesso a ricommercializzare il prodotto vuoi per un danno di immagine o per un naturale decadimento dello stesso dovuto al tempo.
In conclusione, il panorama politico e normativo è sfavorevole al commercio di Cannabis light. Tuttavia, l’esistenza di alcuni punti fermi permette comunque agli imprenditori di non arrendersi al disfattismo e di proseguire nella propria attività commerciale. Si consiglia, a questo proposito, di rivolgersi a esperti del settore che possano, tramite appropriata attività di consulenza, consigliare le migliori strategie da adottare.
a cura del dott. Riccardo Camilloni, studio legale Avv. Elia De Caro